Esistono molti falsi miti sul Sake, sicuramente la più conosciuta bevanda giapponese. Proviamo dunque a fare chiarezza. Noto anche come “vino di riso”, la definizione tuttavia non è del tutto esatta. Il particolare processo di fermentazione di riso, acqua e spore koji, non ci consente di catalogare il sake né come distillato, né come fermentato e neppure come liquore, richiedendo dunque che venga iscritto in una categoria a sé stante.
Quello più conosciuto in occidente in realtà è solo uno dei tanti prodotti in Giappone, dove questo viene infatti chiamato nihonshu (alcol giapponese). La parola sake significa semplicemente “bevanda alcolica”, la cui attribuzione cambia a seconda della regione in cui tale bevanda viene prodotta, agli ingredienti utilizzati e alla lavorazione impiegata per la produzione. Infatti, mentre nel meridione per sake si intende un distillato di canna da zucchero e patate (shochu) ad Okinawa si utilizza lo stesso termine per un altro distillato ottenuto da un riso a chicco lungo e dal koji nero, generalmente chiamate awamori.
Nascita e primi processi produttivi
Il sake è giustamente identificato come una bevanda giapponese, eppure sembra che le sue origini siano cinesi. Esistono molte teorie e molte storie sulle origini del sake, una di queste ne colloca la nascita nel 5000 a.C., più o meno la stessa data a cui risalgono quasi tutte le bevande alcoliche fermentate create dall’uomo.
Il sake nasce contemporaneamente alla scoperta della coltivazione del riso in ambiente umido: è proprio grazie all’unione di acqua e riso che si sviluppano muffe e fermentazione. Il primo sake prodotto prevedeva, tra gli ingredienti, anche castagne, miglio e ghiande e, dato che non si conosceva ancora il processo di maltazione, la trasformazione degli amidi in zucchero non avveniva tramite germogliazione ma veniva avviata grazie agli enzimi presenti nella saliva. Per questo motivo venne chiamato kuchikami e cioè “masticato in bocca”. Al composto, prima masticato e poi sputato nei tini, veniva aggiunto del grano appena cotto che ne permetteva la fermentazione.
La pratica della masticazione era affidata esclusivamente alle giovani ragazze vergini, tale procedimento venne utilizzato anche successivamente per la produzione di particolari sake destinati al consumo di ricchi e benestanti. La bevanda ottenuta aveva una bassa gradazione alcolica e non veniva filtrata, si suppone dunque che fosse consumata come una zuppa e il suon aspetto fosse simile a quello del porridge.
Qualche secolo dopo venne scoperta una muffa che permetteva la trasformazione dell‘amido del riso in zuccheri (koji-kin). L‘innesto del koji-kin nel riso rese superfluo l‘uso della masticazione, sopperita anche dall‘aggiunta di una particolare miscela di lievito (shubo) che serviva a convertire gli zuccheri in etanolo. Si presume che la scoperta di tale processo avvenne in maniera del tutto casuale, dovuta solo al fluttuare nell‘aria delle spore del koji e del lievito, che finirono in un composto di acqua e riso.
Sviluppi delle tecniche di preparazione
Il sake venne importato in Giappone già con le prime migrazioni. Nel VII secolo a.C. nuove tecniche provenienti dalla Cina permisero la produzione di un sake di maggiore qualità. Secoli dopo il sake divenne monopolio del palazzo imperiale di Kyoto che istituì un organismo esclusivamente dedicato alla sua preparazione. Tale organismo si occupò dello studio dei processi fermentativi e produttivi, in questo modo la qualità del sake migliorò in maniera consistente. Vennero così aggiunte nuove fasi al processo di fermentazione che permisero di aumentare il livello di alcol e ridurre le possibilità di inasprimento; si iniziò inoltre una specie di pastorizzazione del sake che consisteva nell‘esporlo a delle fonti di calore, anche se poi il composto veniva versato nuovamente nelle botti con i batteri.
Il monopolio imperiale terminò intorno al 1800, durante l‘era Meji, permettendo la produzione di sake a chiunque avesse i mezzi e conoscenze per farlo. Si assistette alla nascita di moltissime aziende che si ridussero drasticamente con la crescente tassazione imposta dal governo. Il business rimase in mano ai grandi proprietari terrieri che possedevano grosse produzioni di riso, tali da potersi permettere di utilizzare il raccolto avanzato appunto per produrre la bevanda.
Nella speranza di evitare la chiusura di altre fabbriche e di aumentarne le entrate fu vietata ufficialmente la produzione casalinga di sake, giustificando tale provvedimento come necessario per motivi igienico- sanitari. Durante il 1900, con l‘apertura da parte del governo di un istituto per la ricerca nella produzione del sake, ci furono grandi cambiamenti. La produzione migliorò così tanto che nel 1907 si tenne il primo concorso per la degustazione del sake.
I cambiamenti furono sostanziali e riguardarono sia la selezione di lieviti scelti in base alle loro proprietà sia l‘utilizzo di serbatoi in acciaio smaltato che risultavano più duraturi, più facili da pulire e privi di batteri (le botti furono bandite per la presenza di batteri e perché il governo pretendeva i pagamento di tasse anche sulla quantità di sake assorbita dal legno).
Durante la Seconda Guerra Mondiale le industrie di sake subirono un altro duro colpo, il riso venne messo a disposizione delle truppe per far fronte allo sforzo bellico. Ad un certo punto si scoprì che al fine di migliorare la struttura e l‘aroma del sake, era possibile aggiungere dell‘alcol. Questa tecnica venne ripresa e utilizzata per aumentare la rendita del sake abbondantemente distribuito all‘esercito, aggiungendo alcol a 90° distillato da bietole e canna da zucchero. Ancora oggi si utilizza questa tecnica. Sempre dello stesso periodo è la produzione di sake senza riso. Ovviamente tutto questo andò a discapito della qualità, che paradossalmente vide il suo miglioramento solo con la riduzione del consumo di sake in favore degli alcolici di importazione.
La produzione attuale
Ad oggi il sake viene prodotto solo con un particolare tipo di riso, destinato esclusivamente a questo scopo in quanto non destinabile all‘alimentazione umana per il suo gusto poco gradevole. Tra le principali tipologie di riso utilizzate troviamo lo Yamadanishiki, il Gohyakumangoku e il Miyamanishiki. La caratteristica di questo riso è quella di avere meno proteine e lipidi ma una maggiore componente amidace.
I chicchi utilizzati per la fermentazione sono esclusivamente quelli che, a seguito della rimozione della crusca e del processo di lucidatura, rimangono integri, ergo adatti. L‘acqua deve necessariamente essere pura e priva di ferro che potrebbe ossidarsi dando odori e colori sgradevoli al sake. Il riso viene cotto a vapore in modo da preservare i chicchi e garantire un processo di fermentazione degli amidi più lento. Viene poi cosparso di Aspergillus oryzae, un particolare fungo filamentoso (una muffa), e lasciato fermentare fino ad una settimana. In seguito si aggiungono acqua e saccaromiceti, dei lieviti utili alla fermentazione alcolica che dura ancora una settimana, alla temperatura di 4°. Successivamente si raggiungono i 15-20° per altre 2-3 settimane. Si ottiene così un mosto (moromi) che viene portato alla temperatura di 10° per poterne filtrare il liquido.
La classificazione del sake è molto difficile in quanto si basa sia sul grado di raffinazione del riso, di cui ne esistono 9 tipologie, sia sulla purezza determinata dall‘aggiunta di un quantitativo maggiore o minore di alcol, sia sull‘invecchiamento.
Come si beve il sake
La cosa più importante è sicuramente consumare un sake fresco di produzione in modo da poterne apprezzare al meglio tutte le qualità organolettiche, in quanto il decadimento inizia già con l‘imbottigliamento della bevanda. Esistono anche delle tipologie di sake da invecchiamento, ma questo non supera comunque mai un anno in quanto tende a perdere profumo e a diventare “ruvido”.
All‘inizio abbiamo parlato delle leggende che girano intorno al sake, la modalità di consumo fa parzialmente parte di queste. Il sake è stato conosciuto a seguito del crescente interesse che la cucina asiatica ha riscontrato in Occidente, nello specifico con la diffusione dei ristoranti e della cucina cinese che ha preceduto tutte le altre.
È corretto pensare che il sake debba essere bevuto caldo, ma in pochi sanno che può essere consumato anche freddo. Questo dipende dal fatto che esistono diverse tipologie e differenti stili di produzione, oltre che dalla stagione e dal contesto in cui viene servito. Generalmente la temperatura ideale viene indicata sull‘etichetta e varia dagli 8° ai 50°. Per gustare un sake caldo bisognerà versarlo in una bottiglietta apposita (tokkuri) e coprirla per non disperdere l‘aroma e i profumi della bevanda. La bottiglietta andrà immersa in acqua preriscaldata ma tiepida, in modo da raggiungere una temperatura tra i 35° e i 40°, facendo attenzione a non superare mai i 50° in quanto l‘aroma e il gusto del sake risulterebbero alterati. Per far si che si scaldi uniformemente è necessario agitare il tokkuri tenendolo per il collo.
Le ciotoline designate alla degustazione del sake riportano sul fondo una spirale blu disegnata il cui scopo è quello di far risaltare i difetti. In passato erano in legno di cedro, in terracotta o in ceramica, mentre ultimamente si stanno diffondendo anche quelle in vetro.